Un attacco alla nobiltà? Le leggi eversive della feudalità

Uno dei primissimi provvedimenti operati dal governo napoleonico al suo arrivo a Napoli fu l’abolizione della feudalità. Le leggi feudali rappresentavano il prologo di ogni altra riforma, di riordino dello Stato: abolendo i diritti giurisdizionali e proibitivi si compiva il passo decisivo per la creazione di uno «stato moderno e un'amministrazione efficiente», poiché «feudalità ed antico regime formavano un nesso indissolubile», infatti i precedenti tentativi di un riordinamento dell'amministrazione e della giustizia erano falliti proprio perché «urtava[no] contro l'esistenza dei poteri e degli abusi feudali»1.
La legge del 2 agosto 1806 trionfalmente proclamava: «la feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, ed i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili»2. Mostrandosi così come la definitiva risoluzione della questione feudale che da lungo tempo si dibatteva nel Paese.
Una soluzione più radicale sarebbe stata impensabile, sia perché la controversia sulla feudalità durava da secoli, sia per l'influenza dei feudatari che era ancora molto forte, sia per le sue complesse implicazioni nell'economia, nella società e nella politica, che portarono alla formazione di nuovi equilibri3.
Le problematiche che caratterizzavano il contesto in cui i francesi dovevano operare sono state magistralmente evidenziate dagli studi di Pasquale Villani, che ha rivalutato l'importanza delle leggi eversive contro una stagione storiografica che ne sminuiva gli effetti, come l'opera di Trifone, di cui Villani pure sottolinea il peso, ma in cui, a suo dire «la critica alle leggi del periodo francese era condotta al di fuori di ogni contesto economico, politico e sociale»4. L'errore principale era il suo richiamo alla tradizione giuridica, «assolutamente antistorico perché quella tradizione si era sempre tenuta nell'ambito del sistema feudale»5 senza prospettarne l'abolizione.
Durante il regno di Giuseppe Bonaparte fu promulgata la legge feudale ma, fu sotto il regno di Murat che ricevette autentica attuazione. Animatori della Commissione feudale, magistratura straordinaria istituita nel 1807 per sorvegliare sull'esecuzione effettiva della legge feudale e risolvere le controversie che ne scaturivano, furono Giuseppe Zurlo e Davide Winspeare, ai quali Murat diede piena fiducia6. L'applicazione delle nuove leggi era un'operazione complessa e richiedeva molto tempo. Innumerevoli furono i problemi che si presentarono7, ma grazie all’incessante lavoro, la Commissione riuscì a completare il proprio compito entro il 31 agosto 18108.
I diritti proibitivi e personali furono aboliti tutti senza indennizzo, esclusi quelli di cui i baroni potessero provare la legittimità9. Riguardo ai diritti esercitati sul territorio la Commissione «dovè in primo luogo stabilire il carattere di perpetuità o di precarietà delle colonie, quindi il possesso, la durata e la ragione di esso. […] L’acquisto colonico equivaleva al possesso; se di durata decennale, la colonia assumeva il carattere di perpetuità. L’onere della prova spettava al barone che doveva esibire pubblica scrittura»10.
Il governo cercò di favorire i comuni nelle rivendicazioni contro i baroni11, ma i giudizi furono sempre improntati all’imparzialità, anche nelle cause riguardanti le famiglie assenti dal Regno, che avevano seguito la corte borbonica12.
L'operazione venne portata avanti con tanto zelo da provocare proteste non soltanto da parte degli ex baroni, ma anche di alcuni ministri e della stessa Carolina Bonaparte che, in una lettera denunciava la disperata situazione delle nobiltà: «la miseria è al colmo in tutte le famiglie nobili, che non possono neppure presentarsi a Corte perché non hanno di che acquistare gli abiti»13. Il quadro da lei descritto è forse anche troppo drammatico, ma innegabili sono le conseguenze delle leggi eversive sulla feudalità, «sulla consistenza e composizione dei suoi patrimoni, sulla ridefinizione dello statuto nobiliare»14.
Potrebbe sembrare che le leggi eversive rappresentassero un vero attacco alla nobiltà e alla grande proprietà terriera, ma contrariamente a quanto si potrebbe credere il reale scopo di queste leggi non era «la distruzione della grande proprietà, ma anzi l'affermazione del concetto di proprietà, il riconoscimento, il consolidamento dei suoi diritti preminenti e assoluti contro i vincoli feudali che l'involvevano, la legavano al regime comunitario, ne ostacolavano la libera circolazione»15.
Il possesso della terra era dunque confermato: si trasformava il feudo in proprietà borghese. Gli ex baroni rimanevano ancora i maggiori proprietari del Regno, ma non si può per questo affermare che le leggi addirittura li favorissero, poiché tali proprietà non godevano più di un regime privilegiato e si rendevano più probabili gli smembramenti dei grandi patrimoni attraverso le vicende successorie16. Essi furono inoltre «colpiti dall'imposta fondiaria e dalla perdita almeno parziale di demani e proventi derivanti da monopoli e diritti giurisdizionali»17. Pur conservando la proprietà queste misure si rivelarono un duro colpo per le finanze degli ex feudatari, e «altrettanto lesive delle finanze baronali furono le azioni di reintegra dei demani comunali, i compensi per gli usi civici, il pagamento delle imposte arretrate di bonatenenza, e soprattutto la svalutazione dei titoli del debito pubblico (arrendamenti e fiscali) che costituivano spesso una parte notevole dei patrimoni feudali»18.
Si trattò, secondo Angela Valente, più che altro di un «riassetto economico» e la legge, pur se «coraggiosa», non infierì sulla nobiltà più che le altre riforme borboniche «che l’avevano politicamente infranta, economicamente diminuita e in parte rovinata»19.
Attraverso il riscatto dei censi e le quotizzazioni demaniali, si puntò a creare una piccola e media proprietà contadina che avrebbe dovuto formare la base di consenso del nuovo regime, legandosi ad esso per la gratitudine del beneficio ricevuto e per la paura di perderlo20. Purtroppo questo ceto non era preparato ad accogliere l’innovazione e a trarne vantaggio. «I lavoratori agricoli nostri – afferma Valente – erano così supremamente ignoranti, così irrimediabilmente pezzenti, che da quella legge non poterono cogliere alcun beneficio[…] non ne avvertirono altro effetto se non il cambiamento di padrone delle terre della loro fatica»21.
Il ministro Zurlo si impegnò affinché della riforma non si approfittassero i ricchi, proponendo la reintegra dei demani comunali indivisi, per poi distribuirli in seguito a quei cittadini, non proprietari, che sapessero meglio trarne profitto22. La questione demaniale era molto complicata perché erano coinvolti differenti soggetti (i demani infatti potevano essere comunali, feudali o ecclesiastici), i confini delle terre spesso incerti e infiniti i cavilli23.
Quest'ultima operazione pertanto non fu portata a termine.
Si aggiunga che, come ha sottolineato Renata De Lorenzo, tale riforma avrebbe comportato un «ribaltamento della geografia sociale del paese»24. Alla creazione di una piccola proprietà, cui il governo era favorevole, si opponevano «le logiche di potere innescate nella corsa all’accaparramento delle risorse messe in circolazione da parte di uomini “nuovi”, proprietari e notabilato»25. Il poco tempo a disposizione e le complicazioni nella situazione internazionale (la partecipazione di Murat alla campagna di Russia, la rottura con Napoleone, lo scompiglio nelle province), resero infine lo Stato incapace di assumersi l'impegno politico e finanziario necessario26.
La mancata realizzazione delle quotizzazioni e ripartizioni di terra ai contadini ha fatto sì che la storiografia demanialista considerasse fallita la legge eversiva. Questa stagione di studi, osserva Musi, auspicava infatti la realizzazione di una riforma agraria e riteneva che durante il Decennio la feudalità fosse stata abolita solo in teoria, ma conservata nei fatti, senza minare la forza economica dei baroni27. La legge feudale resta però «importantissima perché abolì comunque la feudalità come ordine della società titolare di giurisdizioni, cioè di privilegi»28, inoltre sarebbe ingenuo aspettarsi che della rovina della feudalità si giovassero i contadini poveri29.
Anche di recente qualche voce si è levata contro la legge eversiva affermando che «la mentalità feudale continuò a permanere e a pervadere per lungo tempo ancora la vita del regno» e che le «risultanze dell'abolizione della feudalità [...] non furono poi tanto incisive come potrebbe pensarsi»30. Senza dubbio «i baroni subirono un colpo dal quale non avrebbero potuto riaversi»31, ma se la vecchia feudalità risultava distrutta, la sua erede più prossima e "legittima" era, secondo Villani, quella borghesia agraria formatasi all'ombra del feudo che ne ereditava anche l'aspetto parassitario, pertanto quei «vincoli feudali che impedivano una più rapida ascesa del Mezzogiorno neppure allora, nonostante gli sforzi, furono interamente recisi»32. La proprietà terriera continuava ad essere considerata come «fonte di rendita e di prestigio sociale»33.
Altri studiosi hanno invece visto nell'abolizione della feudalità e nel pieno riconoscimento della proprietà privata il superamento di un grave ostacolo allo sviluppo industriale, a ciò bisogna unire il peso dell'intervento dello Stato in campo economico e il suo atteggiamento liberista che incoraggiò il commercio e la crescita industriale34. Così anche John Davis, pure molto critico sull'operato dei francesi, colloca proprio nel Decennio la nascita dell'imprenditoria napoletana, anche se fortemente caratterizzata dalla presenza straniera35.
Se questo periodo fu tra i più difficili per il Mezzogiorno «la fine del regime feudale fu assai utile e servì, a più tarda scadenza, a porre il regno in condizioni di affrontare meglio le future competizioni sui mercati internazionali»36, pertanto non si può misconoscere tutta l'azione riformatrice del Decennio.
Anche il governo borbonico in esilio in Sicilia elaborò una legge abolitiva della feudalità. Incaricati della redazione sono i ministri Medici, Marulli, Circello e Migliorini. L'analisi datane da Antonio Mele mostra che «dal punto di vista dei diritti giurisdizionali, personali e proibitivi, la proposta di questi quattro tenaci legittimisti ricalca quasi totalmente le innovazioni promosse dall'Usurpatore»37. Al ritorno del re questa legge avrebbe dovuto sostituire quella francese, confermando l'abolizione della feudalità, aveva pertanto una semplice «esigenza simbolica e propagandistica di ripudio dell'“Usurpatore”». Pur affermando che «la monarchia borbonica aveva preso coscienza dei numerosi “disordini” provocati dal sistema feudale»38 e che la soluzione consistesse «nello scardinare [...] un assetto istituzionale che ha del tutto perso la funzione per cui fu originariamente istituito»39, si rifletteva, in realtà, in tale proposta l'atteggiamento dei feudatari che non avevano più a cuore le giurisdizioni, ma solo il possesso della terra, che era il bene più redditizio, ed erano favorevoli alla trasformazione dei feudi in proprietà allodiali. Osservando più attentamente, continua lo studioso, emergevano tutte le debolezze di questa proposta che non mettevano realmente in discussione le prerogative della nobiltà40. Nonostante in questa proposta mancasse totalmente lo spirito che invece animava i provvedimenti napoleonici, essa può essere presa come testimonianza del forte impatto che ebbe sulla società l'abolizione della feudalità.
In pochissimo tempo e in una situazione di instabilità si realizzò una riforma di grandissima complessità, si scardinò finalmente un sistema, come quello feudale, che era fortemente radicato nelle società. La creazione di nuovi equilibri sociali ed economici richiedeva molto più tempo di quello che i francesi ebbero a disposizione, ma si era intanto sancita l'affermazione di «un nuovo di tipo di stato e di una nuova società»41.

[1] P. Villani, Feudalità, riforme, capitalismo agrario : panorama di storia sociale italiana tra Sette e Ottocento, Bari, Laterza, 1968, p. 86.
[2] Legge 2 agosto 1806 in Collezione degli editti, determinazioni, decreti e leggi di S.M., Napoli, 1806, p. 257, cit. in A. M. Rao – P. Villani, Napoli 1799-1815. Dalla repubblica alla monarchia amministrativa, Napoli, Edizioni del Sole,1995, p. 209.
[3] Ivi, p. 226.
[4] P. Villani, Il Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari, Laterza, 1962, p. 202.
[5] Ivi, p. 203.
[6] Egli era fermamente convinto della grande utilità della legge, scriveva infatti: «Il più grande beneficio del mio regno sarà senza dubbio l’abolizione assoluta della feudalità». (Lettera del re al ministro dell’Interno, in data I ottobre 1810). E per propagandare l’operazione affidò a Davide Winspeare l’incarico di scrivere una storia degli abusi feudali. A. Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino, Einaudi, 1965, p. 278.
[7] Soprattutto venivano lamentate l'apatia e la negligenza dei comuni nella risoluzione delle liti tra università ed ex baroni. A. M. Rao – P. Villani, Napoli 1799-1815, cit., pp. 225-226.
[8] P. Villani, Mezzogiorno, cit., p. 206; P. Villani, Feudalità, riforme, cit, p. 104. Secondo la Valente furono giudicate ben 2.900, anche se ne rimasero in pendenza ancora 95, affidate poi alle magistrature ordinarie. A. Valente, Gioacchino Murat, cit., p. 281.
[9] La Commissione doveva «valutare la natura giuridica dei luoghi su cui ricadevano gli oneri; affidare al feudatario o all’ente ecclesiastico il dovere di dimostrare la legittimità degli oneri ricadenti sui territori allodiali; affidare invece ai cittadini il dovere di fornire la prova dell’illegittimità degli oneri sui territori di natura feudale». A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 278.
[10] Ivi, pp. 278-279.
[11] Ricorda la Valente che «a favore dei comuni fu emanato il decreto 16 ottobre 1809, con il quale si eguagliarono i diritti di quanti non avessero reclamato contro gli ex baroni a quelli dei comuni che lo avessero fatto. Perché ve ne erano di pigri e anche di paurosi, sicché il governo prescrisse agli intendenti di sorvegliare perché tutti i paesi rivendicassero i propri diritti». A. Valente, Gioacchino Murat, cit., pp. 283-284.
[12] Ivi, p. 282.
[13] A. M. Rao – P. Villani, Napoli 1799-1815, cit., p. 233. Questo il testo della lettera di Carolina del 24 agosto 1810 riportato da Angela Valente: «Il giorno della tua festa non vi sono state [alla gala di Corte] che le dame di palazzo e le persone di corte; nessuna delle dame presentate. Questo proviene dalla miseria di tante famiglie, e che ogni giorno qualche nuovo processo. È una desolazione universale. Non vi è più gioia a Napoli». Archivio Nazionale di Parigi, 31 AP, cart. 27, dos. 566, n.79 in A. Valente, Gioacchino Murat, cit., p. 278.
[14] A. M. Rao, Mezzogiorno e rivoluzione, cit., p. 1028.
[15] A. M. Rao – P. Villani, Napoli 1799-1815, cit., p. 228.
[16] Ibidem
[17] A. M. Rao, Mezzogiorno e rivoluzione, cit., p. 1028.
[18] A. M. Rao, L'eversione della feudalità, Atti del Convegno (San Severo 14-16 dicembre 1990), San Severo 1991, p. 25.
[19] A. Valente, Gioacchino Murat, cit., pp. 18-19.
[20] Alcuni dati concreti sulla distribuzione delle terre feudali, seppure parziali, possono essere utili per valutare questa operazione: in Terra di Lavoro ai baroni vengono sottratti 26.878 moggia per reintegre ai demani e 75.884 per compenso di usi civici; in Pricipato Citra 87.000 moggia per reintegre e compensi per usi civici; in Pricipato Ultra 58.000 moggia per reintegre e compensi e 60.000 moggia vengono liberate dal terraggio; in Basilicata 16.000 moggia tornano ai comuni e 37.000 vengono divisi in 32.690 quote; in Calabria Citra vengono quotizzati 200.000 moggia. P. Villani, Feudalità, riforme, cit., p. 109.
[21] A. Valente, Gioacchino Murat, cit., p. 25.
[22] P. Villani, Feudalità, riforme, cit., p. 107. Osserva Villani, che Zurlo non si rendeva conto che «per superare il regime agrario feudale erano necessarie profonde trasformazioni dei rapporti di produzione e della struttura economica» A. M. Rao – P. Villani, Napoli 1799-1815, cit., p. 233.
[23] A. Valente, Gioacchino Murat, cit., p. 281.
[24] R. De Lorenzo, Murat, Roma, Salerno Editrice, 2011, p. 211.
[25] Ivi, p. 213.
[26] P. Villani, Mezzogiorno, cit., pp. 206-207.
[27] A. Musi, Il feudalesimo, cit., pp. 277-280.
[28] Ivi, p. 277.
[29] P. Villani, Feudalità, riforme, cit., p. 108.
[30] A. Cestaro , Il Mezzogiorno fra l'età giacobina e il decennio francese: aspetti e problemi, in A. Cestaro, A. Lerra (a cura di), Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l’età giacobina e il decennio francese : atti del Convegno di Maratea, 8-10 giugno 1990, Venosa, Osanna, 1992, p. 35.
[31] P. Villani, Feudalità, riforme, cit., p. 109.
[32] Ivi, p. 109. 
[33] A. M. Rao, Mezzogiorno e rivoluzione, cit., p. 1031.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] A. Lepre, Sui rapporti tra Mezzogiorno ed Europa nel Risorgimento, in A. Lepre, Il Mezzogiorno dal feudalesimo al capitalismo, Napoli, Sen, 1979, p. 25, cit. in A. M. Rao, Mezzogiorno e rivoluzione, cit., p.1033.
[37] A. Mele, La legge sulla feudalità del 1806 nelle carte Marulli, cit., p. 104.
[38] Ivi, p. 103.
[39] Ivi, p. 104.
[40] Ciò è dimostrato dal fatto che la legge conservava le prestazioni territoriali, senza curarsi se queste fossero «pregiudizievoli all'agricoltura», lasciava i demani agli ex feudatari come allodio e non aboliva i fedecommessi, fondamentali per la continuità dei patrimoni aristocratici. Ivi, pp. 106-107.
[41] P. Villani, Feudalità, riforme, cit., p. 110.

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