La feudalità nell’età moderna

In questo primo post voglio affrontare un tema particolarmente caro a coloro che si occupano di feudo e feudalità e cioè se sia effettivamente corretto parlare di feudalità per un periodo successivo al Medioevo e quali sono le differenze riscontrabili nella feudalità di età moderna rispetto a quella medioevale.Quella che all'apparenza può sembrare una oziosa disputa terminologica nasconde implicazioni molto più profonde, leggete questo articolo e potrete scoprire quali sono.


  • Signoria o feudalità?
«Cocciutamente noi teniamo per fermo che senza contratto vassallatico, senza feudo, senza un’organizzazione sociale e politica fondata su vicoli privati di natura particolare, non esiste regime feudale»[1]. Questa affermazione di Boutruche introduce la fondamentale questione riguardante gli studi sulla feudalità: se si possa effettivamente parlare di regime feudale in età moderna. Sembra in tali parole emergere che per gli studiosi dell’età medievale, una volta venuti meno i riti e i simboli che caratterizzano il pieno regime feudale, non si possa parlare d’altro che di signoria. Quest’ultima appare caratterizzata, nella ricostruzione dello stesso Boutruche, dal possesso fondiario e dai connessi poteri giurisdizionali e proibitivi, il diritto di banno, grazie al quale il signore «ordina, obbliga, punisce»[2] e regola tutta la vita dei propri dipendenti, ma,  pur essendo alla base del feudalesimo, ne rimane distinta.
Eppure c’è da chiedersi, riprendendo le osservazione di Pasquale Villani, «come mai, nonostante che la distinzione tra diritti signorili e regime feudale non fosse ignota neppure a giuristi e studiosi del passato, si sia continuato e si continui a parlare di sistema feudale con riferimento alla società europea fino a tutto il XVIII secolo. Si tratta soltanto della acritica ricezione del termine impiegato polemicamente dagli scrittori illuministi e poi dai rivoluzionari francesi, passato, infine, con più ampia significazione nella tradizione marxista? O il motivo invece è da ricercare nella particolare posizione che la signoria rurale ha acquistato divenendo la base del sistema feudale?»[3]. Chiarendo la sua posizione lo studioso spiegava come una volta inserita nel sistema politico del feudalesimo, la signoria finisca per diventare tutt’uno con il regime feudale, creando così un nuovo regime politico-sociale che ingloba i diritti signorili e fa del feudo il carattere distintivo della classe dirigente. La compenetrazione tra le due realtà, nota e riconosciuta dagli stessi contemporanei, rende infine impossibile una distinzione. Questa situazione investe l’intera gerarchia sociale e la struttura dello Stato, non più soltanto gli aspetti economici giurisdizionali e amministrativi locali, concludendo pertanto che parlare esclusivamente di signoria rurale per l’età moderna risulterebbe riduttivo[4].
Su tale questione si sofferma anche Renata Ago, definendo caratteri e differenze del sistema feudale tra medioevo ed età moderna.
La studiosa sottolinea quanto fosse ancora fortemente viva la percezione di un regime definito come feudale alla fine del XVIII secolo, tanto che durante la rivoluzione francese l’Assemblea Nazionale Costituente «con entusiasmo» ne proclamava l’abolizione. Rifacendosi proprio ai decreti di abolizione, si preoccupa di spiegare in cosa consistesse questa «feudalità fuori epoca»: essa risulta caratterizzata da «le servitù personali, residuo dell’antico servaggio; i diritti feudali o signorili come per esempio il monopolio di caccia e pesca; la giustizia signorile costituita dai tribunali di villaggio presieduti dal signore o da un suo rappresentante; le decime dovute al clero; i censi, gli champarts (canoni corrispondenti ad una quota del raccolto) e gli altri oneri gravanti sulle terre contadine»[5], ciò mostra che del sistema feudale era sopravvissuto tutto quanto inerente alla terra, mentre erano venuti meno i connotati militari che caratterizzavano il feudalesimo medievale.
Vengono evidenziati sostanziali slittamenti di significato nella terminologia feudale utilizzata in età moderna, e risulta in particolare interessante come il termine vassallo, che originariamente indicava gli appartenenti alla classe dominante, e quindi un pari del suo signore, in età moderna designi invece coloro che sono soggetti alla giurisdizione del signore[6]. Queste peculiarità segnano una trasformazione profonda di ciò che in origine era «la forma di dipendenza delle classi superiori, caratterizzate innanzitutto dalla vocazione guerriera e di comando»[7] e che con il tempo aveva assunto sempre più importanza «quale principio di organizzazione del territorio e di esercizio della sovranità»[8].
Pur mutato nei suoi caratteri originari, questo sistema rimane «un insieme coerente – spiega ancora Ago – dotato di una sua logica funzionale, capace di integrare le strutture ereditate dal passato, di trasformarle eventualmente dall’interno», proprio questa coerenza e organicità, secondo l’autrice, fanno sì che non si possa parlare di semplici residui della società feudale medievale e che anche la feudalità di età moderna possa essere considerata un sistema sociale complessivo.
Quella che all’apparenza potrebbe sembrare una semplice disputa terminologica è in realtà una questione molto complessa e profonda e infatti ha animato il dibattito feudalesimo-feudalità, particolarmente  acceso tra gli anni Sessanta e Settanta che ha visto coinvolti alcuni dei maggiori studiosi di storia medievale e moderna. Si trattava di un problema particolarmente caro agli studiosi del periodo rivoluzionario perché la presenza o l’assenza di un regime feudale influenzava la lettura della società alla vigilia della rivoluzione.
Difficile sarebbe una ricostruzione complessiva di tale dibattito a causa della sua ampiezza e complessità, qui preme ricordare che esso ha avuto «l’effetto di produrre una più precisa e rigorosa definizione dei concetti correlati all’aggettivo “feudale”, che ne consentisse però l’applicabilità anche al di fuori del contesto altomedievale»[9], e ha contribuito a far emergere una realtà molto più complessa. Possiamo però affermare, riprendendo le conclusioni di Jacques Godechot, che «nel XVIII e anche nel XIX secolo, in alcuni paesi vi erano ancora feudi, e dunque vi era una feudalità. E se questa feudalità ha caratteri diversi da quella del XIII secolo, ciò non toglie che fosse una feudalità»[10].

  • Alcuni caratteri della feudalità dell’età moderna
La feudalità, come è naturale per una struttura così importante e pervasiva della società europea, ha suscitato grande interesse da parte della storiografia, ed è stata oggetto di differenti interpretazioni, anche fortemente contrastanti. Solo per citare alcune posizioni: una parte di storiografia di ispirazione marxista l’ha considerata esclusivamente come sistema produttivo, impostazione che è stata criticata sia da «gli accademici borghesi», che identificavano la feudalità con la struttura militare, sia da altri studiosi che invece ne proponevano una interpretazione molto più complessa, mentre alcuni studiosi americani, ostili all’impostazione marxista, hanno considerato il regime feudale come «un metodo generale di organizzazione politica»[11]. In realtà la feudalità è l’insieme di tutte queste diverse componenti, è stato infatti sottolineato come si componga sia di un sistema agrario, sia di un sistema economico, con proprie leggi e che si differenzia dal sistema capitalistico, sia di un sistema istituzionale, che prevede la delega di poteri sovrani ad un signore, sia di un sistema politico «fondato sull’esercizio del potere all’interno di un regime piramidale di deleghe della sovranità a partire dal vertice», sia di un sistema socio-culturale caratterizzato da legami personali e clientelari[12].
Come avverte Renata Ago preliminarmente alla propria opera, non è possibile descrivere un regime feudale europeo unico, poiché ogni realtà nazionale è caratterizzata da elementi peculiari. Se in passato, autori come Tocqueville ritenevano che esso fosse «guidato secondo le stesse massime» in tutta Europa, si preferisce oggi prestare «attenzione sulla specificità degli elementi che compaiono in ogni singolo contesto», pertanto diverse sono state le problematiche sollevate dalla differenti storiografie nazionali[13].
Si possono però rintracciare alcuni caratteri di fondo, in particolare che segnano le differenze con il feudalesimo medievale e tracciano lo sviluppo dell’istituto.
Il feudo nell’età medievale rappresentava la retribuzione di un servizio e come tale aveva carattere provvisorio, legato al servizio stesso e a colui che lo presta, non si trattava di un bene di proprietà e poteva essere alienato al venir meno del giuramento di fedeltà[14].
Nell’età moderna la feudalità perde i tipici caratteri medievali: il giuramento di fedeltà e l'omaggio assumono ora la forma di contratto scritto, permane però il rapporto tra patrono e cliente dove la fedeltà viene scambiata con la protezione del signore[15], il feudo, inoltre, viene progressivamente assimilato alla proprietà privata.
Il primo passo verso la piena allodializzazione avviene con il riconoscimento del diritto di trasmettere in eredità il feudo. I feudatari avevano fin dall'inizio esercitato una forte pressione per poter beneficiare di questo diritto, e già nel XII secolo si era ottenuto in quasi tutta l’Europa. Le condizioni di trasmissione del feudo erano molto differenti da regione a regione. Per quel che riguarda l’Italia nella parte settentrionale era diffusa la divisibilità del feudo, che si richiamava al diritto longobardo, mentre nel meridione prevaleva il diritto franco che ne imponeva l’indivisibilità. Tuttavia alcuni baroni napoletani riuscirono ad ottenere il privilegio di poter suddividere i feudi fra i loro eredi. Si trattava, comunque, sempre di grandi complessi feudali, mai di un singolo feudo. La questione della divisibilità del feudo era strettamente legata al diritto di devoluzione del sovrano: mentre i feudatari tendevano ad allargare sempre più la cerchia dei possibili eredi, al fine di mantenere il feudo all'interno della famiglia, i sovrani cercavano all'opposto di restringere il grado di parentela per poter incamerare nuovamente il bene. Si diffondono allora, in deroga al diritto vigente, primogeniture e fedecommessi vincolando così il feudo, che diviene indivisibile e inalienabile e deve pertanto essere trasmesso intatto ai successori. Scopo del fedecommesso è, non solo quello di garantire l’integrità del patrimonio, ma anche quello di prevedere qualsiasi falla nella linea successoria e impedire il diritto sovrano di devoluzione[16].
Pur essendo assimilato alla proprietà privata il feudo rimane contraddistinto da essa per le facoltà giurisdizionali che comporta, è stato infatti definito «come un complesso territoriale a cui sono legate alcune facoltà giurisdizionali, facenti capo al signore, che vincolano gli abitanti del feudo e li obbligano ad una serie di oneri e di prestazioni. In virtù di tali prerogative, inoltre, i beni che costituiscono il feudo sono sottoposti ad un trattamento giuridico speciale»[17].
Durante tutta l’età moderna i feudatari continuano ad occupare «il vertice della piramide sociale, che quasi ovunque conservava forti connotati feudali»[18] e a svolgere il ruolo di «intermediari tra i vari corpi della società locale e il potere centrale del sovrano. Nei confronti della popolazione sulla quale esercitavano la propria giurisdizione, essi agivano da massimi patroni che garantivano, da un lato, la difesa di privilegi e immunità e dall'altro l’accesso alle cariche pubbliche e ai benefici»[19]. Questa analisi di Ago mostra chiaramente che i rapporti tra Stato moderno e feudalità erano in realtà «molto più complessi e contraddittori», rispetto a quanto vorrebbe la tradizione a lungo predominante, secondo cui l’affermazione dello Stato moderno contrastava profondamente con il sistema di governo feudale, e sono statti più spesso caratterizzati da «i sistemi indiretti, i compromessi, gli scambi»[20].
Anche per quel che riguarda il rapporto tra feudalità e stato assoluto, risulta molto interessante una nuova lettura che, contrariamente all'interpretazione classica e consolidata della contrapposizione tra «fautori dello Stato assoluto» e «campioni delle autonomie feudali», tende a sottolineare continuità e contiguità tra le due concezioni. Sembrerebbe che i due soggetti «fossero accomunati da un’identica visione dell’azione politica, ispirata da una comune scienza assolutistica del potere»[21].
Ciò non vuol dire certo che i rapporti tra potere centrale e feudatari o tra questi ultimi e le comunità infeudate fossero idilliaci, infatti numerosi sono i casi di controversie e liti. La giurisdizione feudale si estendeva dappertutto e il feudatario era sia giudice sia parte in causa, inoltre secondo l’ordinamento egli era tenuto a tutelare i propri interessi.
Le università, in quanto soggetti giuridici, potevano opporsi al feudatario e alle sue usurpazioni, specie se erano dotate di statuti, e rappresentavano quindi una limitazione della sua autorità giurisdizionale. Lo Stato spesso sceglieva di appoggiarne le rivendicazioni, ma il suo schieramento non era automatico. Inoltre l’ingerenza del potere centrale nei territori feudali è frutto di una faticosa conquista ottenuta solo nel XVIII secolo[22].
È proprio nel XVIII secolo che i rapporti con il potere centrale iniziano a mutare profondamente: mentre in momenti di debolezza i sovrani erano riusciti a rafforzare il proprio potere e a estendere il controllo sul territorio grazie al meccanismo delle infeudazioni e attraverso le reti clientelari che comportavano, alcuni secoli più tardi la feudalità iniziò ad essere vista invece come un ostacolo a un pieno esercizio della sovranità e come motivo di disgregazione[23].
Saranno questi i temi principali della polemica antifeudale illuministica





[1] R. Boutruche, Signoria e feudalesimo, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 37, cit. in P. Villani, Signoria rurale, feudalità, capitalismo nelle campagne, in «Quaderni storici», VII, 1972, p. 5.
[2] Ivi, p. 6.
[3] P. Villani, Signoria rurale, feudalità, capitalismo, cit., pp. 6-7.
[4] Ivi, pp. 7-9.                                                                                                                                           
[5] R. Ago, La feudalità in età moderna, Roma Bari, Laterza, 1994, p. VII.
[6] Ivi, p. VIII.
[7] M. Bloch, La società feudale, Torino, Einaudi, 1949, p. 239, cit. in R. Ago, Op. cit., p. VIII.
[8] R. Ago, Op. cit., p. IX.
[9] Ivi, p. 167, Per un efficace ricostruzione del dibattito storiografico sulla feudalità si veda R. Ago, Op. cit., pp. 160 e sgg.
[10] Centre National de la Recherche Scientifique, L’Abolition de la «féodalité» dans le monde occidental, 2 voll., Edition du Centre National de la Recherche Scientifique, Paris, 1971, cit. in R. Ago, Op. cit., p. 171.
[11] R. Ago, Op. cit., pp. 162-163-164.
[12] Ivi, p. X.
[13] Ivi, p. XI.
[14] M. Bloch, La società feudale, pp. 263-265, cit. in R. Ago, Op. cit., pp. 3-4.
[15] R. Ago, Op cit.., pp. 97-138.
[16]  Ivi, pp. 23-25-28-29-30.
[17] Ivi, p. 9.
[18] Ivi, p. 116.
[19] Ivi, p. 117.
[20] Ivi, p. 98.
[21] Ivi, p. 124.
[22] Ivi, pp. 12-13-14.
[23] Ivi, p. 5.

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