Lo Stato amministrativo e la ridefinizione dell'identità nobiliare

Nel post di oggi cercherò di mettere in evidenza come, con l'affermarsi dello Stato amministrativo, si verifichi anche una ridefinizione della nobiltà. La qualifica di proprietario, condizione necessaria per l’accesso alle cariche pubbliche, diviene la base di una nuova élite, si sancisce in tal modo l’affermazione di una società non più fondata sulla nascita, ma sulla proprietà, dove nobili e borghesi si mescolano diventando ora funzionari dello Stato, scelti dall’autorità centrale e da essa controllati.


I tratti sicuramente più caratteristici dell’età napoleonica sono la nascita e l’affermarsi di un nuovo tipo di Stato: la monarchia amministrativa, «che si colloca in netta posizione di alterità rispetto al tipo di formazioni statuali di Antico Regime». Quelle formazioni si caratterizzavano per «frantumazione della giurisdizione, divisione dell’amministrazione fra magistrature centrali, organi autonomi e autolegittimantisi periferici, prevalenza, quindi, dello spirito di ceto e di corpo più che di quello statale»1, invece, lo Stato amministrativo rappresentava «il primato di un’amministrazione basata su norme certe»2, un organismo fortemente presente sul territorio e la società, che regolava tutti gli aspetti della vita dei cittadini e sempre pronto «ad intervenire con circolari, ispezioni, controlli»3, in modo quasi opprimente. Lo Stato assumeva così l’aspetto di «un Giano bifronte - come lo definisce Renata De Lorenzo - nemico o tutore».
Il territorio nazionale fu diviso, mediante la legge dell’8 agosto 1806, in Province, affidate agli Intendenti, e Distretti, ai Sottintendenti. Presso ogni Intendenza fu istituito un Consiglio di Intendenza, in Provincia si istituirono i Consigli generali di provincia, che dovevano occuparsi del contenzioso amministrativo, nei Distretti i Consigli distrettuali, che dovevano ripartire il carico tributario4.
Questa riorganizzazione amministrativa riplasmava non solo il territorio, ma anche la società, come è stato abilmente evidenziato dagli studi di Angelantonio Spagnoletti e Renata De Lorenzo.
Secondo Spagnoletti le Università, che per lunghissimo tempo avevano costituito un «microcosmo», affidate al potere dei Signori avevano finito quasi con l’identificarsi con essi, tale processo è constatabile nelle antiche descrizioni geografiche dove «l’insistenza sulla generalizzata fertilità del suolo, sulla ubertosità dei raccolti, sulle ricchezze minerarie, sulla laboriosità degli abitanti non avevano altro fine se non quello di far risaltare la storia, il prestigio e la ricchezza delle città che erano ubicate in quelle province e, insieme, l’autorevolezza e la rilevanza politica delle famiglie feudali o patrizie che in quelle risiedevano o da quelle avevano tratto origine», mentre «lo scarso rilievo che in esse veniva dato alle forme di organizzazione dello Stato aveva una sua precisa ragion d’essere nell’assenza della dimensione amministrativa dalla vita dello Stato. Presidi, percettori, governatori potevano essere dislocati nelle province o nelle università, ma la loro presenza non risultava ai contemporanei più significativa di quella dei detentori degli altri poteri che si affollavano sul territorio: feudatari, enti ecclesiastici, piazze nobili e popolari»5.
Le leggi francesi sull’amministrazione civile facendo «crollare quel vecchio sistema e con esso tutta quella impalcatura amministrativa e giudiziaria che aveva sostenuto e caratterizzato tanta parte della vita delle Università»6 le resero improvvisamente prive della loro autonomia, della possibilità di «poter decidere in loco della propria sorte», creando nuovi «vincoli di dipendenza e di sudditanza che mina[va]no la compattezza della comunità»7.
Renata De Lorenzo parla di pars destruens e pars costruens. Con la prima indica il processo di «abolizione delle funzioni giurisdizionali della feudalità», riscontrando però quanto forte fosse la «capacità rappresentativa dei valori locali, di aggregazione e di mediazione» della feudalità; e con la seconda le leggi sull’amministrazione che «escluse[ro] ogni forma di intervento politico che non fosse controllabile dai poteri centrali [cosicché] i comuni furono responsabili della propria amministrazione e delle proprie finanze, ma sotto la supervisione dell’intendente». In tal modo, continua la studiosa, il comune veniva «fortemente controllato dallo Stato centrale» ma, «avvertiva […] come oppressiva la presenza dei funzionari dell’amministrazione»8.
Quindi lo Stato amministrativo genera un processo di ridefinizione delle identità locali.
La creazione di questi nuovi organi amministrativi poi andava ad alterare completamente la gerarchia territoriale. Infatti, sempre De Lorenzo rileva che la «ristrutturazione amministrativa», destinando alcuni centri a sedi di uffici e tribunali, in virtù della loro posizione centrale, li privilegiava in quanto ne incentivava la crescita demografica ed economica, allo stesso tempo però ne penalizzava altri9.
Insieme alla ridefinizione delle identità locali e territoriali, si verifica anche una ridefinizione delle élites.
L’abolizione della feudalità aveva privato l’antica nobiltà delle proprie prerogative politiche, ma il nuovo regime non la escluse, anzi, diede ad essa grandi opportunità. Osserva Spagnoletti che «a quelle famiglie che aderirono al regime […] furono riservati ampi e importanti spazi nelle strutture amministrative e burocratiche statali», furono però costrette ad adeguarsi alla rigida legislazione, che prevedeva ambiti ben precisi di azione, modificando tutta la propria esistenza e le proprie funzioni. L’alternativa era quella di «rinchiudersi in un difficile e pericoloso isolamento», pertanto si può dire che la scelta fosse obbligata. Nonostante ciò molte furono le famiglie aristocratiche che preferirono mantenersi a distanza, percorso che però «poteva essere praticato solo da chi disponeva di risorse tali da metterlo al riparo dalle conseguenze della soppressione degli istituti giuridici che fino ad allora ne avevano tutelato la posizione economica e il rango sociale»10. Si verificava dunque una ridefinizione dell’identità nobiliare su nuove basi «quali la proprietà e la funzione amministrativa»11.
La qualifica di proprietario era divenuta indispensabile nella società di età napoleonica per l’esercizio di qualsiasi carica mettendo in secondo piano quella di nobile. Nota Maria Sofia Corciulo che poiché il Codice civile affermava e tutelava il concetto di proprietà, «i proprietari erano tenuti a collaborare, prestando la loro opera e le loro conoscenze al funzionamento ed alla difesa delle nuove istituzioni politiche»12.
Questa nuova situazione veniva sancita dalla legge del 18 ottobre 1806, una circolare che ne precedeva la pubblicazione affermava che «la legge non riconosce più la differenza di ceti per l’esercizio degl’impieghi civici. La qualità di proprietario, di probo, e d’idoneo, sono quelle che principalmente debbono riunirsi per renderne degno un Cittadino, qualunque poi sia la classe, a cui appartenga»13. L’intenzione del nuovo regime, ci spiega Armando De Martino, era quella di trasformare in burocrazia quel «notabilato periferico, costituito soprattutto da piccoli e medi proprietari terrieri, da piccola nobiltà provinciale» che avrebbe dovuto assumere «l’esercizio del potere periferico»14, si voleva così creare «un vasto consenso sociale, legando per il tramite istituzionale gli interessi di ampi strati della società alle fortune del nuovo Stato», attuando la «ricomposizione della struttura sociale e di riorganizzazione del potere locale»15. Naturalmente si trattava di un’evoluzione che si sarebbe protratta per lungo tempo, «forse più a lungo di quanto il gruppo dirigente non avesse immaginato: iniziata nel 1806, la riforma dell’amministrazione civile solo verso la fine del 1809 poteva ritenersi compiuta, se non perfettamente, almeno nei suoi lineamenti di carattere generale»16. Secondo De Martino, il progetto fu in buona parte realizzato, nonostante alcuni limiti che egli non dimentica di sottolineare, infatti afferma che «se le leggi non prevedevano altro criterio per la nomina alle cariche municipali che l’accertamento da parte degli intendenti dello status di proprietario e la qualità di probo e idoneo»17 ciò non bastava ad assicurarne «la qualità di buon amministratore», specialmente in chi non aveva nessuna esperienza in quel campo. Molti erano «del tutto incapaci dell’esercizio delle loro funzioni»18, o inattivi e negligenti e privi «di ogni spirito pubblico», e non mancavano poi coloro che «affezionati ancora all’antico governo non curano l’esecuzione dei novelli stabilimenti»19. Pertanto le amministrazioni comunali, salvo rari casi, non risultavano «rispondenti alle direttive del governo»20.
Ancora De Martino descrive le vicissitudini e difficoltà del reclutamento dei decurionati, cioè dei corpi rappresentativi delle università. La legge del 18 ottobre aveva fissato limiti di censo molto precisi: i decurioni dovevano essere sorteggiati tra coloro che potessero vantare una rendita non inferiore a 24 ducati per una popolazione fino a 3000 anime, «il doppio per quelle da tremila a seimila abitanti, il quadruplo per le università con popolazione superiore»21. Ma queste regole non erano sempre rispettate. Ad esempio in Molise furono ignorate nella maggior parte dei comuni permettendo l’accesso a persone che non avevano neanche un terzo della rendita richiesta dalla legge e in alcuni casi neanche il numero era proporzionato a quello degli abitanti22. Altro problema piuttosto frequente era la massiccia presenza nei decurionati di personaggi legati all’ex-barone, come accadde nel comune di Corigliano, dove l’intendente Simone Colonna de’ Leca segnalava la presenza di 14 decurioni che sostenevano il duca e che pertanto non avrebbero curato a dovere gli interessi del comune23. Analoga situazione veniva segnalata dall’intendente Blanc de Volx24.
Non disponiamo purtroppo per il Regno di Napoli di un quadro completo sulla composizione degli organi amministrativi e dei differenti criteri di scelta del personale come il bellissimo e ricchissimo lavoro di Livio Antonielli sui prefetti del Regno d’Italia25, pertanto ho cercato di confrontare dei casi singoli.
Lo studio dei consigli generali e distrettuali di Terra d’Otranto di Maria Sofia Corciulo evidenzia alcuni tratti principali nella selezione del personale che la studiosa ritiene possano essere applicati oltre il caso specifico e rappresentino la volontà politica generale. Si tratta di tre elementi: la condizione economico-sociale, la competenza a ricoprire la carica richiesta e i trascorsi politici. La condizione economica veniva preferita alla competenza «dal momento che una generica acculturazione era considerata più che sufficiente», mentre i trascorsi politici potevano essere valutati diversamente. Molti aspiranti funzionari ponevano l’accento sulla loro partecipazione agli eventi repubblicani del ’99, altri invece si vantavano, all’opposto, di essere rimasti in disparte «vantandosi di non avere mai turbato la quiete pubblica», infatti la «scarsa politicizzazione era considerata a volte una caratteristica positiva». Analizzando i canali di reclutamento la studiosa nota che, per quanto riguarda i gradi medi della pubblica amministrazione, cioè i gradi di segretario generale d’intendenza  e sottintendente, venivano scelte «persone provenienti o dai tribunali o dalla polizia o dal Consiglio di Stato (dove erano uditori) oppure dall’esercizio di professioni legali», per i gradi inferiori, come quelli di consigliere d’intendenza e consigliere aggiunto, bastava «aver esercitato le cariche di sindaco, impiegato d’intendenza, comandante di battaglione, presidente del consiglio distrettuale, giudice di pace». Mentre gli intendenti di solito provenivano «dal Consiglio di Stato, dai tribunali civili o penali e dall’esercizio di alcune cariche rilevanti nell’amministrazione civile e finanziaria»26.
Giuseppe Civile sottolinea gli stessi criteri selettivi aggiungendone però un quarto forse anche più importante ossia quello delle raccomandazioni. Tale elemento è infatti l’unico sempre presente, in alcuni casi i candidati sono accompagnati solo dal nome del loro patrocinatore. Anche la scelta degli intendenti era compiuta valutando singole personalità «scelte in base alla conoscenza diretta di alcuni elementi del governo napoletano». La scelta ricadde su personalità di rilievo come Galdi, Poerio, Colletta, e solo molto raramente si rivelò infelice e gli intendenti furono immediatamente sostituiti27.
Riguardo l’estrazione sociale dei funzionari provinciali, Civile nota, dallo studio dei casi di Terra d’Otranto, che «per il proprietario direttamente interessato alla conduzione dei suoi fondi è estremamente gravoso assumere incarichi così impegnativi», mentre le retribuzioni modeste e corrisposte spesso in ritardo tagliavano fuori coloro che non erano benestanti. Erano allora i percettori di rendita, sia dotati di un titolo, sia borghesi, «le figure sociali che confluiscono in prevalenza nell’amministrazione provinciale». Anche Civile quindi conferma che attraverso l’apparato amministrativo si voleva legare al nuovo regime quei gruppi che traevano le proprie ricchezze dal possesso terriero e separarli «dall’antica condizione di isolamento e privilegio», trasformandoli in «un notabilato socialmente altrettanto gratificante ma assai più dipendente dal nuovo assetto politico». Allo stesso tempo si voleva anche «ampliare e rafforzare il consenso di gruppi della grande come della piccola borghesia vincolandoli a uno status sociale prima ancora che economico, che tende[va] a identificarsi col nuovo modello statale»28.
Il personale dei consigli provinciali e distrettuali, delineato dalle ricerche di Alfonso Scirocco, appare composto da una classe ristretta, si tratta di una media e alta borghesia agraria ciò perché la scelta era limitata ai possidenti, pertanto professionisti industriali e commercianti ne erano esclusi a meno che non «fossero stati contemporaneamente possidenti». I compiti che essi dovevano assolvere, fornire «un giudizio sullo stato della provincia e formulare proposte, senza peraltro ricevere emolumenti», richiedevano non solo competenza nel settore dell’economia e dell’amministrazione, ma anche ricchezza e grande prestigio presso la loro comunità di appartenenza29. Si trattava quindi di un personale accuratamente selezionato, tenendo conto anche della fedeltà manifestata verso la nuova monarchia30.
Essi diventarono l’«unico corpo intermedio effettivamente funzionante sotto i Napoleonidi e poi sotto i Borboni, espressione precisa della classe dirigente provinciale»31.
La creazione di questi organismi rappresentativi permetteva alla borghesia provinciale «di intervenire più direttamente ed attivamente nella vita amministrativa dei distretti e delle province, e di acquisire una più ampia coscienza dei propri diritti e dei propri interessi»32.
L’affermarsi della borghesia è testimoniato da una sua forte partecipazione nei consigli generali e distrettuali in Abruzzo Ulteriore II come mostrano le ricerche di Paolo Muzi. Dopo una iniziale difficoltà nel reperire elementi validi tra la «ristretta borghesia della provincia»33, si affermano il ceto dei funzionari e quello forense, mentre scarsa risulta la partecipazione della borghesia imprenditoriale, composta soprattutto da armentari. «Pochi ma significativi gli esponenti delle arti liberali (medici e professori)», mentre i proprietari terrieri “puri” anche se numerosi non riesco ad avere peso, tanto che Muzi li definisce «massa incolore».
La nobiltà è in minoranza, ma «è dominante nelle cariche di presidente».
Partecipano ai consigli provinciali indifferentemente famiglie che si erano distinte per «simpatie giacobine» e «famiglie impegnate attivamente e nella medesima zona sul fronte sanfedista». Ma Muzi sottolinea come la partecipazione alla rivoluzione sul fronte sanfedista fosse servita a famiglie di possidenza «più a consolidare un loro sistema di rapporti economici e sociali sviluppato grazie alla lontananza dei grandi feudatari»34.
In Terra d’Otranto al contrario prevalgono gli elementi di origine nobiliare. Ma mentre nel consiglio distrettuale di Lecce risulta prevalente «un alto livello di politicizzazione ed una notevole esperienza di amministrazione locale», prova anche delle più importanti funzioni esercitate dagli uffici di quella provincia, i consiglieri di Mesagne e Taranto «sembravano […] appartenere ad un notabilato locale del quale è difficile rintracciare qualche caratteristica particolare atta a farli emergere dall’anonimato»35. Altra caratteristica dei consigli di Terra d’Otranto è la grande presenza di ex repubblicani36, con l’unica eccezione dell’elezione del mercante d’olio Giuseppe de Sinno, che era stato un eletto sanfedista37.
In Terra di Bari si registra invece il predominio nobiliare nella carica di sindaco perché, come spiega Spagnoletti, i nobili erano meglio inseriti nel nuovo regime e avevano una competenza e preparazione che permetteva il «retto funzionamento dell’ente locale», godevano anche di grande popolarità. Ciò mostra d’altra parte che la «formazione di una nuova classe dirigente avesse bisogno di tempi che spesso non coincidevano con quelli della normale vita amministrativa comunale»38.
Il caso di Terra di Bari permette di cogliere il rapporto tra intendenti e classe dirigente locale. Secondo Spagnoletti le «liste degli eligibili», che dovevano appunto raccogliere tutti coloro che secondo la nuova legislazione avessero il diritto di partecipare all’amministrazione pubblica, divennero invece uno strumento nelle mani dei gruppi di potere locali per manovrare le scelte dell’intendente e «per procedere a massicce epurazioni e per restringere ancor di più il numero di coloro che potevano assumere incarichi pubblici»39. In questo modo i decurionati cercavano di riprendersi quell’autonomia decisionale che vedevano intaccata dalla presenza e dai poteri dell’intendente. È proprio questo scontro tra diversi rapporti di forza, poteri locali consolidati contro cui deve lottare l’intendente, che bisogna tener presente analizzando la nascita e la costruzione della monarchia amministrativa il cui scopo «dovrebbe essere il completo disciplinamento delle istanze amministrative locali operato grazie soprattutto a quei rappresentanti sul territorio di tutte le articolazioni dello Stato centralizzato che furono gli intendenti provinciali»40. Tema che mi sembra sia spesso oscurato dall’aspetto giuridico amministrativo. Infatti, come ricorda Spagnoletti, «il Decennio aveva portato nel Regno non solo mutamenti in campo politico, amministrativo ed economico, ma aveva investito financo il livello dei rapporti sociali e delle mentalità»41.
Anche in Capitanata le élites locali subiscono una ridefinizione della propria identità ad opera delle leggi sull’amministrazione. I casi di Cerignola, Manfredonia e Foggia analizzati da Maria Angela Caffio mostrano delle élites «forti d’identità legate […] a quadri di riferimento socio-istituzionali destinati ad essere delegittimati e scardinati dal piano organico di riforme varato nel Decennio»42. In un primo momento, osserva la studiosa, non sembrano esserci «cambiamenti nei linguaggi, nei simboli, nelle pratiche dell’agire pubblico»43e il potere resta nelle mani di coloro che già lo esercitavano. A Foggia si osserva un tentativo del gruppo escluso dall'esercizio del potere di «sottrarre il pluriennale monopolio del potere cittadino al partito avverso [...] appoggiandosi all'autorità di un giudice forestiero», quindi grazie all'intervento delle nuove forze del governo centrale, ma sempre seguendo «schemi comportamentali inscritti nelle pratiche politiche d'antico regime»44. La questione si risolve «con una conferma dei preesistenti equilibri di potere». Anche l'élite di Manfredonia si mantiene costante e anzi «sembrava trarre nuovo vigore dall'applicazione delle leggi francesi».
Questi ceti dirigenti mostrano quindi una grande capacità di adattamento in una fase particolarmente critica (che non si limita solo al Decennio, ma che era già cominciata con l’esperienza repubblicana del ’99 e durerà fino al 1820-21) che mira alla difesa e alla conservazione degli «spazi stessi dell’agire politico, minacciati soprattutto nei loro margini di autoreferenzialità, pur accettando di ridefinirne e rimaneggiarne eventualmente forme e linguaggi»45.
Il settore dell’amministrazione finanziaria è quello che meglio mostra lo sviluppo di una burocrazia moderna poiché nella selezione del personale diede grande importanza alla preparazione, all’esperienza e alle capacità tecniche del degli individui, e tali criteri non vennero mai meno. Il personale era composto secondo la De Lorenzo da «commercianti in gran numero, architetti, benestanti derubati dai briganti, qualcuno vantava una cultura filosofica e matematica, qualcun altro aveva vissuto in Francia, erano nobili e non nobili». Pur non avendo una provenienza omogenea essi avevano una buona cultura e seppero ben recepire le innovazioni francesi. Alcuni casi analizzati dalla studiosa indicano «le possibilità che nell’amministrazione statale erano offerte alla borghesia provinciale di essere maggiormente partecipe della gestione del potere»46.
Alla fine del decennio «si erano formati i quadri di una burocrazia destinata a dare un diverso tono alla vita politica e amministrativa meridionale» che anche la restaurata monarchia borbonica lasciò nell’esercizio di quelle funzioni poiché impossibili da sostituire.
Il nuovo ceto dirigente risultato di questa evoluzione amministrativa era il ceto proprietario, ma non si trattava solo di grandi proprietari, accanto ad essi infatti si era formato anche «un nuovo medio ceto di più modeste origini, di modeste fortune economiche» costituito grazie all’allargarsi della burocrazia civile e dai quadri intermedi dell’esercito47. Venivano così definitivamente sostituiti «i vecchi ceti in cui si articolava la società di antico regime»48.
Con la legge organica sull'amministrazione civile del 12 dicembre 1816 i Borbone ritornati sul trono confermarono la legislazione napoleonica cercando di motivare questa scelta affermando che «i Napoleonidi avevano fatto nel Regno ciò che la monarchia borbonica si accingeva a fare», ma riconoscendo, non solo l’importanza delle riforme realizzate, ma una continuità nella concezione dello Stato49.


[1] A. Spagnoletti, Centri e periferie nello Stato napoletano del primo Ottocento, in A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario: economia, società e istituzioni, Bari, Dedalo, 1988, p. 379.
[2] R. De Lorenzo, Un regno in bilico. Uomini, eventi e luoghi nel Mezzogiorno preunitario, Roma, Carocci, 2001, p. 293.
[3] Ivi, p. 297.
[4] A. De Martino, La nascita delle intendenze: problemi dell'amministrazione periferica nel Regno d Napoli: 1806-1815, Napoli, Jovene, 1990, p.  108.
[5] A. Spagnoletti, Territorio e amministrazione nel Regno di Napoli (1806-1816), in «Meridiana», 9, 1990, pp. 79-80.
[6] A. Spagnoletti, Centri e periferie, cit., p. 384.
[7] Ivi, p. 385.
[8] R. De Lorenzo, Un regno in bilico, cit., p. 296.
[9] Ivi, p. 297.
[10] A. Spagnoletti, Profili giuridici delle nobiltà meridionali fra metà Settecento e Restaurazione, in «Meridiana», n. 19, 1994, p. 33.
[11] Ivi, p. 50.
[12] M. S. Corciulo, I consigli generali e distrettuali di Terra d’Otranto dal 1808 alla rivoluzione del 1820-21, in A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario, cit., p. 394.
[13] Archivio di Stato Bari, Documenti antichi – Bari, fs. I, fasc. 6, cit. in A. Spagnoletti, La formazione di una nuova classe dirigente in provincia di Bari. Sindaci e decurioni tra 1806 e 1830, in «Archivio storico pugliese», 36, 1983, pp. 128-129. Ma una legge non era certo sufficiente a modificare d’un tratto divisioni profondamente radicate nella mentalità. Lo testimonia il caso di un patrizio barlettano che ancora nel 1809 distingueva la popolazione in ceti e si stupiva che tra i decurioni non vi fossero distinzioni e non si annotassero i titoli. Ivi, p. 128.
[14] A. De Martino, La nascita delle intendenze, cit., p. 81.
[15] Ivi, pp. 80-81.
[16] Ivi, p. 82.
[17] Ivi, p. 218.
[18] Archivio di Stato Napoli, Interno, II inv. F. 2196. Il Ministro dell’Interno al Re, 15 gen. 1807, cit. in A. De Martino, La nascita delle intendenze, cit., p. 220.
[19] Ivi, p. 221.
[20] A. De Martino, La nascita delle intendenze, cit., p. 218.
[21] Ivi, p. 117.
[22] Ivi, p. 239.
[23] Archivio di Stato Napoli, Interno, II inv. F. 2245. L’intendente S. Colonna al Ministro dell’Interno, 7 set. 1807, cit. in A. De Martino, La nascita delle intendenze, cit., p. 247.
[24] A. De Martino, La nascita delle intendenze, cit., p. 228. Problemi ai quali si cercherà di porre freno modificando la legge. La legge del 20 maggio 1808 prevedeva infatti l’estensione dell’elettorato passivo anche a «coloro che vivono colla professione di arti liberali», evitando così che il potere rimanesse nella mani di una ristretta oligarchia di proprietari. Ivi, p. 248.
[25] L. Antonielli, I prefetti nell’Italia napoleonica, Bologna, Il Mulino, 1983.
[26] M. S. Corciulo, I consigli generali e distrettuali, cit., p. 396.
[27] G. Civile, Appunti per una ricerca sull'amministrazione civile nelle province napoletane, in «Quaderni storici», 37, 1978, pp. 241-242-243.
[28] Ivi, p. 234.
[29] A. Scirocco, I corpi rappresentativi nel Mezzogiorno, cit., p. 105.
[30] Ivi, p. 111.
[31] Ivi, p. 105.
[32] P. Villani, Italia napoleonica, Napoli, Guida, 1978, p. 128.
[33] P. Muzi, La presenza borghese nei consigli generali e distrettuali di Abruzzo Ulteriore II (1808-1830), in A. Massafra (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario, cit., p. 413.
[34] Ivi, p. 418.
[35] M. S. Corciulo, I consigli generali e distrettuali, cit. p. 401.
[36] Questa caratteristica veniva spesso considerata prova di fedeltà verso il regime francese. Nel 1810 quando si verifica un ricambio della maggior parte dei consigli generali del Regno, la Corciulo nota una diminuzione degli ex repubblicani, solo due su otto, segno forse del consolidamento del regime. Ivi, pp. 400-403.
[37] Ivi, p. 403.
[38]  A. Spagnoletti, La formazione di una nuova classe dirigente, cit., p. 151.
[39] Ivi, p. 141. Si cercava di manipolare le scelte dell’intendente riempiendo le liste di analfabeti o “impediti”. Erano considerati impediti quei cittadini che «non avevano dato i conti della loro passata amministrazione, i funzionari statali e comunali, i “litiganti” col comune, i fittuari delle sue rendite, i congiunti fino al IV grado “con uno degli amministratori che va a dimettersi o installarsi”, gli ecclesiastici e i rappresentanti della vecchia burocrazia feudale». Ivi, p. 133.
[40] Ivi, p. 147.
[41] Ivi, p. 148.
[42] M. A. Caffio, Dal municipio alla provincia. Note sugli spazi e sui linguaggi dell’agire politico delle élites in Capitanata nel Decennio francese, in S. Russo (a cura di), All’ombra di Murat. Studi e ricerche sul decennio francese, Bari, Edipuglia, 2007, p. 150.
[43] Ivi, p. 151.
[44] Ivi, p. 153.
[45] Ivi, p. 136
[46] Anche il soldo, che era tra i più consistenti, era un elemento «stimolante», richiamando «sia persone dalle limitate risorse economiche sia chi aveva altre fonti di reddito». R. De Lorenzo, Il personale delle finanze nel Regno di Napoli durante il «decennio» francese, in «Quaderni storici», 37, 1978, pp. 270-271.
[47] P. Villani, Italia napoleonica, cit., p. 127.
[48] A. Spagnoletti, Centri e periferie, cit., p. 383.
[49] A. Spagnoletti, La formazione di una nuova classe dirigente, cit., p. 137.

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